PIERO RAGONE è filosofo, ricercatore, scrittore, studioso di religioni e di esoterismo. Il suo campo d’indagine è tutto ciò che la scienza non è in grado di spiegare. Laureato in Filosofia nel 2001, consegue due master e nel 2017 riceve la laurea honoris causa in Scienze Esoteriche. Autore di numerosi testi di successo, è ospite di convegni nazionali ed internazionali e il suo nome è accostato ai maggiori interpreti della ricerca italiana e mondiale.

domenica 20 agosto 2017

NON CONQUISTARE IL MONDO. CONQUISTA TE STESSO.


Dio è un genio. Sa darti lezioni anche quando pensi che sei tu a darne a Lui. Madre Natura scelse di farmi bassino (1.72 non è cifra da giganti), con un serio disturbo alla vista, timido fino all’eccesso, introverso da far venire noia, un genio dietro i banchi ma un disastro nello sport.
E io, come risposta, scelsi il tennis. Mi piaceva perché nel tennis non c’è squadra. Tu vinci tu perdi. Ma non c’era la possibilità di frequentare buone scuole, avere buoni maestri. 
E così feci da me. Un allenamento “matto e disperatissimo”, dovevo arrangiarmi con racchette non convenzionali, palline di gomma per non far rumore, e poi correre correre correre. Il mio coach era il VHS: imparavo strategie da match che registravo e rivedevo giorno dopo giorno. La mia prima racchetta seria fu una Dunlop da bassifondi; la seconda fu una Prince Classic Graphite che splendeva anche di notte. Prince, come il principe che volevo diventare. Non compravo completi; li disegnavo e mia madre li confezionava per me. 
Il mio gioco aveva molte lacune: servizio senza peso e diritto spento, ma avevo un rovescio bimane da urlo e una determinazione imbattibile. Quel furore che non puoi domare. È così che ho vinto quasi tutti gli incontri. Quasi sempre in rimonta: quando quelli più bravi di me (cioè tutti) mi distaccavano, tiravo fuori gli artigli e li rimettevo al loro posto. Era vivere in funzione di un’idea: i miei limiti fisici, la mia scarsa preparazione, la mia estrazione sociale dicono che non posso farcela; io voglio dire il contrario. Vincere quando tutti dicono che non ti è concesso vincere.
In Matchpoint, di Woody Allen, il protagonista afferma: 
“Chi disse ‘Preferisco avere fortuna che talento’ percepì l'essenza della vita. La gente ha paura di ammettere quanto conti la fortuna nella vita. Terrorizza pensare che sia tutto così fuori controllo. A volte in una partita la palla colpisce il nastro e in quell’attimo può andare oltre o tornare indietro. Con un po' di fortuna va oltre e allora si vince. Oppure no e allora si perde”.
E io credevo che nessun nastro potesse fermare i miei colpi; ero convinto che tutte le volte la pallina sarebbe caduta dalla parte giusta. E per un po’ è andata così. Ho alzato qualche coppa, ricevuto qualche medaglia; sono rimasto imbattuto per un anno intero. Molti pensavano che avrei potuto osare una onesta carriera da semipro.
Ma arriva per tutti il tempo degli esami.


Settembre 199X. Mi iscrivo ad un torneo che avevo vinto l’anno precedente. Fui sorteggiato al primo turno con un amico, ci siamo allenati assieme per tutta l’estate. Ma lui aveva un allenatore, io no.
Lui aveva il pubblico dalla sua, io no (ero ancora “quello da battere”). Per la prima volta, mi sentii inadeguato, c’era la sensazione che quello non fosse il posto dove avrei dovuto essere. Conoscevamo i punti deboli l’uno dell’altro. Il suo era il rovescio. Il mio era tutto il resto. Vinco il primo set 6-3. Facile, troppo facile. Ma lui è in gamba, sa dove colpire, sa dove non posso arrivare; vince il secondo 6-4 e si porta 5-4 nel terzo dopo 3 ore e mezza di pura scherma. Ancora un punto e sono fuori. Lui serve, tira a destra, sinistra, ancora destra e poi sinistra, faccio il tergicristallo come se quella palla racchiudesse il mio futuro e se fosse caduta sarebbe esplosa cancellando un’illusione. Non potevo lasciare che accadesse ma, in fondo, lo avevo capito. Quella partita non era per me, quello sport non era per me, quella racchetta non era per me. Volevo dimostrare che potevo vincere battaglie per le quali non ero nato. Ma Dio mi ha ricordato che c’era ben altro da fare. E quel nastro, che prima lasciava passare tutti i miei colpi, quella volta trattenne la pallina. Che cade dalla mia parte. Risultato finale: 3-6.6-4.6-4. Fuori al primo turno. Ho distrutto la mia Prince sotto gli occhi di tutti a fine gara come Cobain distruggeva la sua Fender Jaguar mancina a fine concerto. E non sono più tornato su un rettangolo di gioco. Nemmeno per gioco. 
Ma non perso. Ho vinto. Quella sconfitta mi ha condotto sulla strada che percorro adesso.
I nostri campi di battaglia sono quelli in cui sentiamo di poter aggiungere qualcosa. Portare linfa nuova. Dare un contributo in meglio. Se combatti le battaglie di un altro, a vincere sarà un altro. Se combatti le battaglie sbagliate, ottieni vittorie sbagliate. Dimostrare a me stesso che potevo sconfiggere avversari più grandi e grossi di me è stata una sinfonia che la mia anima non scorderà mai. Ma lì potevo solo alzare coppe e collezionare medaglie. Qui posso vincere la piaga dell’ignoranza e il flagello della menzogna. Porgere la mano ad un mondo che ha bisogno di aiuto. Niente palline e racchette adesso. Solo penne e quaderni. 
E la mia vecchia martoriata Prince, li come un trofeo, mi ricorda che ci vuole fortuna anche quando devi tirarti indietro al momento giusto. E che non devo mai aver paura di perdere: può essere la vittoria più importante della mia vita.
- Piero Ragone 
VVB