PIERO RAGONE è filosofo, ricercatore, scrittore, studioso di religioni e di esoterismo. Il suo campo d’indagine è tutto ciò che la scienza non è in grado di spiegare. Laureato in Filosofia nel 2001, consegue due master e nel 2017 riceve la laurea honoris causa in Scienze Esoteriche. Autore di numerosi testi di successo, è ospite di convegni nazionali ed internazionali e il suo nome è accostato ai maggiori interpreti della ricerca italiana e mondiale.

lunedì 11 dicembre 2017

I DIAMANTI DEI POVERI

Del film “Caravaggio” di Derek Jarman, ricordo questa frase:
“Le stelle sono i diamanti dei poveri. I ricchi nascondono i loro tesori nelle casseforti. Si vergognano a doverli comparare con le ricchezze del Signore che risplendono nel Cielo”.

Molti anni fa, quando ero un vagabondo dell’Anima e trovavo rifugio in ogni tana che il mio studiato vagare mi offriva, mi è capitato per un po’ di possedere soltanto i “diamanti dei poveri”. L’imprevedibile avventura della Vita mi aveva condotto in una terra avara, per certi versi muta e indecifrabile; accade così che, volontà del destino o combinazione sbagliata di scelte azzardate e amorevole sfiga, la strada diventa la tua casa e il tuo unico bagaglio è uno zaino per metà pieno di mistici ricordi di un futuro che puoi solo sognare, e per metà pieno dei NON che ti trascini in quella specie di guscio di tartaruga che hai incollato tutto il giorno sulle spalle. 
Quando lo sporco della polvere d’asfalto incrosta il volto, e le fessure di un indumento stracciato sono motivo di vergogna per te, e di soddisfazione per chi ti vuol male, hai due possibilità: lasciare che tutto sia, oppure perderti nel loop di “come potrebbe essere stato”.
In quei giorni, il tuo corpo è da qualche parte; il posto in cui dormi è ovunque; ciò che mangi è quasi nulla e ciò che sei è il silenzio di ogni cosa.
L’unica certezza è l’elenco di quello che non hai. O di quello che non ti appartiene più. Due pensieri mi impedivano di far ritorno a casa: non ricordare più la via di casa e conoscere esattamente dove fosse la mia casa.
E fu così che due giorni di cammino nel vuoto mi condussero in un campo di calcio abbandonato; senza porte né spalti, senza righe né bandiere, un angolo del campo era il rifugio presso il quale quella sera trovai rifugio. 
Al centro della notte, disteso su una panchina in disuso, vedevo il cielo perlato tracciare sentieri che sognavo di percorrere e, poiché non era mia abitudine pregare quando il mondo girava al contrario, dissi imbronciato: “Mio caro Papà, non potevi riservarmi una fine peggiore. Disteso qui, sulla panchina della Vita, con la certezza che il mio turno non arriverà mai”. Non erano queste le parole esatte, ma c’era un carico di sano livore che non posso riportare.

Andiamo avanti di circa dieci anni, come in un film in stile Rodriguez/Tarantino, di quelli in cui salta la finta giuntura della finta pellicola per creare un finto diversivo. E lo spettatore balza all’improvviso da un contesto all’altro, ignorando quello che è accaduto nel mezzo.
Era il mio primo convegno. Il tabellone strillava nomi più grandi del mio, e sapevo di essere soltanto un riempitivo, un intermezzo quasi ludico tra ricercatori di grande fama. Nessuno del pubblico era lì per me. Perché nessuno sapeva di me. Ma di lì a poco avrebbero ascoltato anche me. 
Prima di parlare con il capo chino, come facevo un tempo, per mezzo minuto diedi le spalle alla platea, come faccio sempre, e pregai, come faccio sempre. E ricordai quel campo abbandonato, il mio rifugio divorato dai cespugli, il silenzio della terra e il Cielo che esibiva i suoi diamanti. Che erano anche i miei diamanti.
Il Grande Regista aveva studiato ogni dettaglio: ambientazione, dialoghi, luci, evolversi del plot dal momento di dolore al trionfo di colore secondo la legge del Tempo Epico.
Chas Kramer, il giovane allievo del John Constantine interpretato da Keanu Reeves (2005), dice qualcosa come: “Se ti mettono in panchina, è per esser pronto a subentrare”.
Non potevo saperlo, ma quando Dio, le scelte azzardate o l’amorevole sfiga mi hanno condotto lì, su quella panchina, a rammendare inutili stracci di un fallimento necessario, era perché, al momento giusto, il più Grande Allenatore che io conosca doveva voltarsi verso di me e dirmi: “Tirati su da quella panca, campione. È il tuo turno. Vediamo cosa sai fare”.
I ricchi nascondono i loro tesori; non possono competere con la bellezza dei diamanti del Signore che risplendono nel Cielo. 
Per questo il Mister mi ha spedito in panchina per metà della mia vita. Perché mi liberassi di ogni stupida ambizione. 
Lui non voleva che fossi il tesoro dei ricchi, rinchiuso in una cassaforte, o in un ufficio. Lui voleva che io diventassi il Diamante dei Poveri.

Ci vediamo al Bivio, Ragazzi.
VVB