PIERO RAGONE è filosofo, ricercatore, scrittore, studioso di religioni e di esoterismo. Il suo campo d’indagine è tutto ciò che la scienza non è in grado di spiegare. Laureato in Filosofia nel 2001, consegue due master e nel 2017 riceve la laurea honoris causa in Scienze Esoteriche. Autore di numerosi testi di successo, è ospite di convegni nazionali ed internazionali e il suo nome è accostato ai maggiori interpreti della ricerca italiana e mondiale.

lunedì 12 febbraio 2018

COSÌ AFFAMATI, COSÌ PATETICI

Alice Cooper non è il mio songwriter preferito ma, per alcune composizioni, gli sono debitore di qualche giro di shot sul mio conto.Eat Some More è uno di quei brani che fa la differenza. Incastonato nel cuore delle 11 tracks di Brutal Planet (2000), uno degli album più ruvidi e ispirati dell’artista del Michigan, E.S.M. affronta il tema della bulimia e dello spreco di cibo proprio del costume Occidentale, ma la sensazione è che i versi denuncino un “abbuffarsi smodato” che va oltre l’alimentazione.
Costruito su una base di accordi grevi, claustrofobici e senza sobbalzi, il pezzo ha una struttura da loop bloccato (4 strofe, 4 frasi di bridge, 4+4 nel ritornello) e privo di varianti.
Tetra e fragorosa, la melodia si trascina per oltre 4 minuti col passo pesante di chi ha trangugiato “Sessanta milioni di tonnellate di carne”. La post-produzione, volutamente “sporca”, confeziona un brano graffiato da suoni sgraziati, cigolii gracchianti da catena di montaggio, scordature meccaniche che evocano l’immagine di un’industria senza porte d’uscita in cui uomini-macchina lavorano prigionieri di altre macchine.
Il clima teso e ridondante si alleggerisce quando il rassegnato coretto intona i quattro versi-ponte che introducono il climax centrale:
“Non ci rendiamo conto di quanto siamo ciechi / Stiamo affondando per il nostro peso”.
Il ritornello è semplice, diretto e impietoso: “Non è bello sprecare / Non siamo felici finché non scoppiamo / Quindi mangiamo ancora e ancora / Fino a crollare sul pavimento / Così affamati, così patetici”.
I pasti somministrati da tutti i big mondiali del fat-food (“cibo grasso”) hanno due caratteristiche comuni: apporto calorico mostruoso, valore nutritivo zero. Una serata al Mac o al Burger ti lascia con la sensazione di aver mangiato troppo e poi, all’improvviso, di non aver mangiato nulla. Si torna a casa affamati, e ne vogliamo ancora. E ancora. E la ragione è semplice: quello che abbiamo ingerito è nulla. Aria. Vuoto. Non è cibo. È putrefazione, additivi e conservanti.

La forma mentis da fast-food non attiene soltanto alle diffuse e cattive abitudini alimentari; è ormai uno stile di vita, un modo di approcciare quello di cui ci nutriamo, soprattutto in ambito culturale.
Tra miliardi di siti, e migliaia di ricercatori fai-da-te creati in laboratorio dalla logica dell’usa-e-getta, i big dell’informazione sfornano notizie e teorie in quantità industriale, così volgarmente indorate da sembrare credibili; ci abbuffano di cultura vuota, di video e riletture colme di grassi saturi che prima ti danno la sensazione di una scorpacciata natalizia e poi, di non aver imparato nulla. È così che ricomincia la caccia alla notizia, alla teoria a più strati, mai lucidi, mai appagati, appesantiti “dal vuoto che divoriamo”, “non ci rendiamo conto di quanto siamo ciechi”.
Ci propongono tre libri all’anno dello stesso autore e noi, mai sazi, mai soddisfatti, ne pretendiamo quattro, cinque e magari di più, perché la regola aurea del fat-food è butta giù “fino ad affondare”. Eternamente affamati, si fa il pieno del nulla, si esplode di nozioni vuote e non se ne ha mai abbastanza.
Ci si trascina, pesanti e intontiti, ingombranti come Slam Balls da 100 kg, gonfi di idee spazzatura, mendicando teorie ingurgitabili purché sterili, mai “felici finché non scoppiamo”, convinti di aver assaggiato il frutto proibito dell’anno.

E qui, di maestri dell’abbuffata nozionistica, di cervelloni rigonfi di idiozie sature ne abbiamo visti transitare così tanti da averne la nausea.
Masticano parole grasse, sputano pensieri vuoti, corpulenti fino ad esplodere di vacue convinzioni, habitué dei fast-food della non cultura, si riempiono di Nulla per insegnare il Nulla.
“Così affamati. Così patetici”.

Ci Vediamo al Bivio, Ragazzi.
VVB 

Questo è il link del brano:

sabato 10 febbraio 2018

NEVERMIND

1990. Quando tra le major si sparse la voce che la demo dei Nirvana, registrata per la Sub Pop all’inizio dell’anno, era un potenziale successo commerciale, molti colossi della musica bussarono alla porta del trio di Seattle. Cobain scelse la Geffen Records, che garantiva al gruppo assoluta autonomia creativa.
Completate le registrazioni delle 12 tracce (+ una fantasma) di Nevermind tra maggio e giugno 1991, qualcuno (forse il diavoletto che ti bisbiglia all’orecchio sinistro) fece notare al leader della band che l’album conteneva non meno di 6 hit da primo posto, e che una distribuzione centellinata dei brani avrebbe garantito al gruppo la permanenza ai vertici delle classifiche per un buon decennio.
Anche se nessuno lo ammetterà mai, questa è la regola non scritta che tiene in vita quasi tutte le etichette discografiche, anche nostrane: se hai 4-5 canzoni di buon livello, è più “commerciale” lanciarne 1-2 all’anno e sistemarle come prima e terza in un album che poi gonfi di riempitivi, in modo da assicurarti un’esposizione mediatica costante e, quindi, guadagni costanti, almeno per un lustro.
Ma Cobain non era d’accordo; aveva a lungo sognato di costruire Nevermind su una solida manciata di tracks dal sicuro impatto, come tutti gli album che avevano segnato la sua formazione musicale, pietre miliari del rock senza alcuna concessione al “marketing”: 12-14 brani memorabili concentrati in un solo lavoro, da Nevermind the Bollocks dei Sex Pistols a Back in Black degli AC/DC.
Nevermind rimase com’era; per avere l’anima di Cobain, il diavoletto avrebbe dovuto impegnarsi di più.

Ho cominciato i lavori per Dominion (che, in principio, aveva un altro titolo) nell’ottobre 2015, seguiti da una pausa di circa 4 mesi, per poi concluderlo nel maggio 2016. A quel punto, avevo accumulato così tanto materiale che un solo libro non sarebbe stato sufficiente per esporre il tutto in modo convincente. Era necessario ripartirlo in due opere. Ho selezionato i temi da pubblicare in Dominion con la certezza che, dal dicembre 2016, dopo un giro di conferenze, avrei rimesso mano alle ricerche per completare l’opera (maggio 2017) e pubblicarle nell’ottobre 2017 con il titolo Bloodlines. Come avevo promesso a me stesso. E a qualcun altro.
Entrambi trattano non meno di 8 temi ben distinti che meritano di essere approfonditi in altrettante monografie; avrei potuto dedicare ad ognuno di essi un intero libro.
Forse il diavoletto che ti bisbiglia all’orecchio sinistro ha formulato la stessa proposta anche a me: “Perché limitarti a due soli libri quando, con gli argomenti trattati, potresti pubblicarne 8-10, e restare sulla cresta dell’onda per un decennio?”.
Risposta: dato che le mie tasche sono mezze vuote più o meno come le Vostre, conosco il “peso” di 15-18 € spesi per un libro. Non so Voi, ma sono facile all’ira quando spreco i miei modesti guadagni per un libro che non li merita, specie quelli costruiti su una sola idea tirata per le lunghe su 300 pagine di noia pura.

Probabilmente i miei lavori non sono e non saranno mai da n.1, ma ho sempre pensato che un libro non debba contare più di 250 pagine, debba presentarsi come una mini enciclopedia condensata ed essere traboccante di informazioni, citazioni, note a piè di pagina e spunti nuovi. Nei miei libri non ci sono “cover” dei pensieri altrui; per quanto assurde siano, c’è posto solo per le mie conclusioni. “Se qualcuno mi legge – impongo a me stesso – deve trovarci qualcosa di nuovo e mai letto altrove”.

Dominion e Bloodlines sono rimasti come li avevo concepiti e, quindi, temo che, per avere la mia anima, il diavoletto dovrà impegnarsi di più.
Potevo sfornare un libro ogni sei mesi, diluire gli argomenti, rimescolare i pensieri, strecciare le mie conclusioni per altri 5-6 anni. Ma non è da me. Non è professionale. Non è degno di chi mi ha insegnato a dare tutto senza trattenere nulla. 
Per la cronaca, la parola Nevermind può essere tradotta come “Non importa”, “Lascia perdere”, “Chissenefrega” o qualcosa del genere.
Appunto: ci si poteva adagiare sui trucchi del “commerciale” e forse guadagnarci qualcosa in più. Ma come dice Cobain: Nevermind. 
Grazie per la dritta, ma non sono interessato.

Ci Vediamo al Bivio, Ragazzi.
Piero Ragone
VVB 

venerdì 9 febbraio 2018

PERCHE' L'ATEO DI OGGI E' "CATTIVO"



15 anni fa, pochissimi sapevano cosa fossero gli Elohim e quasi tutti ignoravano l'esistenza dei termini kevod, ruach, benè elohim, tselem...
Si presuppone che la Conoscenza agevoli il miglioramento della condizione umana; ma, da quando nel vocabolario popolare del nuovo millennio sono stati immessi questi termini ebraici, che ognuno traduce a modo suo, e male, e PER UNA RAGIONE PRECISA, invece di rinvigorire la Fede, si è dato origine ad uno dei più traumatici sfregi di Apostasia mai registrati nella Storia dell'Umanità.
il tessuto sociale dell'Occidente si è popolato di una nuova forma di ateismo, che insulta, predica porta a porta, aggredisce chi ateo non è. 

La regola vuole che l'ateo si disinteressi alla religione ed eviti ogni discorso teologico perché non crede in Dio. Se non credi, non ti dai pena di cercarlo o capirlo.
Oggi, il CATTIVO ateo pretende di saperne più di chi crede; questo nuovo esercito di Non Credenti dichiara che "tutti dovrebbero occuparsi della Bibbia, eccetto chi finora se n'è occupato, in particolar modo chi ha Fede".

Non Credere è una delle facoltà insite nel Libero Arbitrio. Persino nella vita di un Credente, ci sono momenti in cui Non Credere diventa quasi una sosta obbligata.

Ma, se si trattasse di Libera Scelta, forse non sarei qui a parlarne. 
La sensazione predominante è che quasi tutti quelli che, in questo Millennio, hanno rinnegato Dio con ferocia, non hanno avuto possibilità di scelta. 
Sono stati CATTIVI. Cosa intendo con il termine CATTIVI?
il latino Captivus indica letteralmente "colui che è stato fatto prigioniero" e deriva dal greco Kapto, "captare, portare a sé", da cui l'italiano "cattività", cioè "essere prigioniero, vivere in una condizione di non libertà".

CATTIVE sono queste povere anime passivamente cadute nella trappola di altri CATTIVI, caduti a loro volta nelle grinfie di qualcuno che è altrettanto CATTIVO.

L'ateismo odierno non è frutto della maturazione di un pensiero proprio; oggi non è data scelta. C'è un profondo, subdolo lavaggio del cervello all'origine di tanto rancore, un odiare perché devi, un rifiuto perché tutti rifiutano.
Queste nuove leve del CATTIVO ateismo si sono smarrite nel sulfureo baratro scavato dalle parole di CATTIVI maestri, hanno rinunciato a loro stessi in cambio della presunta libertà di odiare tutto e tutti senza provare il minimo rimorso. 
E, in questo macabro rituale di prostituzione dell'Anima, riecheggia il delirio di Hitler che, nel 1941, aveva detto: "Dobbiamo imparare ad essere crudeli con la coscienza pulita". Crudeli senza provare pietà.

I miei complimenti a chi ogni giorno si prodiga con una martellante propaganda antireligiosa per allargare le fila dei Walking Dead ai quali strappano ogni Speranza: stanno contribuendo a realizzare il folle, quasi interruptus sogno nazista.

Il mio dispiacere per le CATTIVE e ignare vittime di questo gioco perverso è pari solo al risentimento che suscitano tali inconsapevoli e CATTIVI Messaggeri del Male.



Ci Vediamo al Bivio, Ragazzi.

VVB 

ANIME SEGRETE

Alcuni autori scelgono di narrare solo di terzi: espongono un evento o una serie di eventi, partecipano emotivamente alla storia che raccontano o parteggiano per uno o più personaggi, ma non sono mai protagonisti.
Altri preferiscono partire da se stessi e astrarre l’universale; così come il maestro zen ritrova l’Universo in una goccia d’acqua, allo stesso modo, alcuni artisti non hanno bisogno di guardare la vita altrui ma attingono dalle proprie esperienze, dai propri sentimenti, distillano parabole da un incontro fortuito, da un amore impossibile, da un errore significativo.
Per alcuni, l’arte è raccontare la vita che gli scorre davanti; per altri, ciò che conta è narrare la vita che gli scorre dentro. Il guaio dell’esprimersi in prima persona è il dover parlare di se stessi; sembra una constatazione banale, ma non lo è affatto.
Un uomo non confessa facilmente la propria vulnerabilità; secondo i canoni del Predatore Alfa, la fragilità in un uomo è sinonimo di poca mascolinità, di debolezza, di insicurezza: perde appeal, si rende ridicolo, piace poco e acchiappa meno. La regola del successo insegna al “maschio” che i veri uomini devono parlare dei loro successi e mai dei loro fallimenti.

Prima del 1964, il linguaggio universale della musica era il rock’n’roll, fresco di una filosofia leggera e disimpegnata: ballare su canzoni che parlavano soltanto d’amore in una forma elementare. “Io amo te”, “tu ami me”, “se non mi ami, lo farai presto” oppure lo struggimento del “peccato sia finita”.
E mentre i Beatles avevano conquistato il mondo parlando di amore, la comparsa della sagoma da menestrello di Bob Dylan aveva introdotto sulla scena la figura del cantastorie che parla di vita vissuta. Secondo la mitologia americana del “girovago e la sua chitarra”, ai cantastorie non ne va bene una: vagano di città in città, da una disavventura all’altra, tra un autostop e una notte sotto il cielo stellato, sempre con l’idea che il peggio debba ancora venire. 
Dylan imparò dalla strada e inventò il folk-rock; Lennon imparò da Dylan e inventò gli anni '60. 
Era il 1965 e John stava vivendo uno dei momenti più difficili. Ricco, famoso e confuso, marito grasso e padre annoiato, l’inquieto anticonformista era intrappolato in un vortice di cliché (dai capelli a caschetto alle odiose cravatte alla canzonetta d’amore) che aveva annullato la sua percezione di se stesso. 
Il Lennon del ‘65 era perso e vulnerabile.

Una delle frasi di Dylan era: “SE NON SEI IMPEGNATO A RISORGERE, SEI IMPEGNATO A MORIRE".
Per rinascere e dar sfogo all’emotività repressa, Lennon doveva sublimare la sua musica, liberarsi dell’imperativo “si parla solo d’amore” e cominciare a parlare di sé. Della sua anima. Coi suoi difetti, le sue imperfezioni. Le paure. E le sconfitte.
La leggenda narra che John era rintanato con Paul McCartney nella soffitta della sua dimora a Kenwood quando compose quella rivoluzionaria richiesta di aiuto (Help!) che non ti aspetti da un vero uomo. Tre ore di lavoro e la canzone era pronta; lenta e straziante ma traboccante di parole chiave:

“Quando ero giovane, non avevo bisogno dell’aiuto di nessuno
Ma ora non sono più così sicuro di me stesso
(..) Aiutami se puoi, mi sento giù
Aiutami a ritornare con i piedi per terra
(..) Mi sento sempre così insicuro
Ho bisogno di te come non ne ho mai avuto prima”.

Nessuna dichiarazione d’amore, nessuna frase sdolcinata, nessuna ostentazione di machismo da star, niente che i più duri tra i duri alla Schwarzenegger, Stallone, Van Damme potrebbero canticchiare. Il brano di Lennon è una confessione aperta, terribilmente sincera e spoglia di artefici, incastonata in una melodia discendente e senza un vero ritornello. È così che il rock’n’roll scoprì che la vita non era solo fiori tra i capelli e mano nella mano, aprendosi a tematiche difficili come il dolore, l’insicurezza, la morte. Ed è così che salutò la sua adolescenza per divenire, semplicemente, “rock”. Crudo. Spigoloso. Adulto.

Se nel 1991 Michael Stipe ha potuto lasciarsi andare ad una confessione poco americana come “Non so se posso farcela” in Losing My Religion, e se Cobain ha potuto inserire un ritornello nei solchi di In Utero che si chiede, anni luce di distanza dal latino da spiaggia abbronzato, “Cosa c’è di sbagliato in me?” è grazie agli antesignani Dylan e Lennon.
Che hanno dimostrato che essere fragili è una virtù. E non nasconderlo è arte.
John dovette poi accettare che la canzone fosse resa più veloce, per rendere l’operazione “commerciabile”. E questo permise al vocalist dei Fab4 di commentare: “È divertente vedere che si balla mentre racconto al mondo di me quando ho toccato il fondo”. 
Un po’ come dire: chiedi aiuto quanto ti pare; tanto la gente ci ballerà su comunque.

- Ci Vediamo al Bivio, Ragazzi.
VVB 

"UN PASSO AVANTI AGLI ALTRI!"

Non ricordo le parole esatte, per cui mi affiderò ai pochi frammenti sopravvissuti tra i ricordi.
La serie TV è Supernatural, i protagonisti sono due fratelli, Sam e Dean Winchester. In questo episodio sono in compagnia di Castiel, un angelo che, con il tempo, è diventato un loro grande amico. I tre sono in un pub e l’angelo è deluso perché il Padre (Dio) non si è dimostrato all’altezza delle sue aspettative, non ha risposto alle sue suppliche e non è accorso al momento del bisogno. 
Per tirarlo su, i due fratelli raccontano all’angelo un aneddoto della loro adolescenza: John, il loro papà, era solito assumere un atteggiamento da sergente maggiore così severo e rigido che uno dei due si ribellò e disse “Papà, non mi piaci affatto, ti odio!”. Il padre lo guardò e rispose: “Figliolo, il mio compito non è piacerti, il mio compito è fare di te un uomo, insegnarti a sopravvivere e a combattere quando io non potrò farlo per te”.

Se nella nostra adolescenza abbiamo sperato che nostro Padre ci parlasse come in un’aula, con cattedra, lavagna e diario della vita in mano, abbiamo fatto male i conti. Forse ci attendevamo dritte su come cavarcela, regole di vita come il Codice dei Samurai tramandato gelosamente di padre in figlio. Ma questo forse accade nelle fiction e, come abbiamo visto, ormai nemmeno in quelle.
La maggior parte di noi non ha e non ha avuto un Padre che ci fa da guida spirituale. Eppure, in un modo tutto suo, è e sarà sempre il primo e il migliore dei maestri. Forse non abbiamo mai avuto il momento del faccia a faccia che ci consacra adulti, della “dritta” per ogni situazione, ma ci ha trasmesso tutto quello che poteva. Niente aforismi, niente parole da ricordare, lo ha fatto vivendo la sua vita come poteva affinché imparassimo, guardando e assorbendo come restare in piedi su questo strano ring sferico.
Ha sempre vissuto con noi. Per noi. Lasciandoci sbagliare. Lasciandosi insultare. Facendosi da parte quando serviva. Intromettendosi quando doveva. Punendoci quando riteneva giusto farlo. Dando o togliendo, se necessario. Ha pianto di nascosto, a volte ha supplicato qualcun altro per noi e non ce l’ha mai detto. A volte ha sbagliato. Non una, ma centinaia di volte. Perché anche un Padre sbaglia; qualcuno lo trova strano? Forse a noi è concesso e a Lui no?

Alcuni rimproverano il Padre di essere un Padrone che si fa beffe dei suoi schiavi: troppo presente, minaccioso e iroso; alcuni gli contestano di non curarsi abbastanza di noi. Troppo distante, incurante, distratto. 
Qualcuno ci racconta cose orribili su Nostro Padre, e alcuni di Noi cadono nella trappola. Non è forse così? 
Ma Nostro Padre si lascia deridere; ci consente di rivolgergli accuse e cattiverie di ogni genere. Per la maggior parte di noi, QUEL Padre non è e non sarà mai un buon Padre; qualcuno lo rinnega, qualcuno dice che non esiste.


Prima o poi, in un momento della nostra vita, abbiamo TUTTI dovuto constatare che non è stato all’altezza delle nostre aspettative. C’è qualcuno non si è mai scagliato contro Lui? Qualcuno non gli mai urlato “Non mi piaci affatto, ti odio!”. 
Ma il Suo compito non è piacerci. Il Suo lavoro è insegnarci a sopravvivere, anche a costo di rinunciare all’amore che non proveremo per Lui. Le vie attraverso cui ci insegna a stare al mondo sono infinite. Tutto il Creato è un manuale di sopravvivenza che ci guida a farci largo in questa giungla piena di avversità e di pochi veri amici.Se fossi stato uno dei fratelli Winchester alle prese con la delusione dell’angelo Castiel, avrei spiegato in questo modo cos’è un Padre: il mio (quello terreno) è uno di quelli che non ti si siede di fronte e ti snocciola verità che cambiano la vita. Padri come lui ricorrono a molto meno. Quando ero un marmocchio e giocavo a calcetto nei campi di terra battuta con gente che non conoscevo, finivo sempre per prenderle. Ero veloce ed anche bravino, ma troppo smilzo e gli altri erano tutti più forti e possenti. Immancabilmente, tornavo a casa lamentando i colpi dei bestioni che picchiavano più di me. 

Così, una domenica mattina, mio padre prese un pallone e mi portò in un campetto appena bagnato da una pioggia recente. Eravamo solo in due, mi disse che, se mi aveva fatto così, piccolo e veloce, non era un difetto su cui piagnucolare ma un virtù da esaltare. Impiegò un’intera giornata a farmi trottare, cadere, infuriare, spronandomi a rialzarmi, ad essere più lesto, più furbo. 
“UN PASSO AVANTI AGLI ALTRI!”, mi gridava. Ero distrutto e fradicio, ad ogni caduta mi sentivo preso in giro, ero furioso e non mi piaceva affatto. 
Ma Lui non era lì per piacermi. Non era il suo compito. Il suo lavoro era insegnarmi a schivare gli stronzi che per tutta la vita avrebbero provato ad insidiarmi il calcagno col loro morso vigliacco. Perché quando vai più forte degli altri, ci sarà sempre qualcuno che schiuma dalla voglia di buttarti giù. 
Questo è il compito del Padre.

- Ci Vediamo al Bivio, Ragazzi.
VVB 

PIERO RAGONE - I fardelli che ti salvano la Vita