PIERO RAGONE è filosofo, ricercatore, scrittore, studioso di religioni e di esoterismo. Il suo campo d’indagine è tutto ciò che la scienza non è in grado di spiegare. Laureato in Filosofia nel 2001, consegue due master e nel 2017 riceve la laurea honoris causa in Scienze Esoteriche. Autore di numerosi testi di successo, è ospite di convegni nazionali ed internazionali e il suo nome è accostato ai maggiori interpreti della ricerca italiana e mondiale.

venerdì 9 febbraio 2018

ANIME SEGRETE

Alcuni autori scelgono di narrare solo di terzi: espongono un evento o una serie di eventi, partecipano emotivamente alla storia che raccontano o parteggiano per uno o più personaggi, ma non sono mai protagonisti.
Altri preferiscono partire da se stessi e astrarre l’universale; così come il maestro zen ritrova l’Universo in una goccia d’acqua, allo stesso modo, alcuni artisti non hanno bisogno di guardare la vita altrui ma attingono dalle proprie esperienze, dai propri sentimenti, distillano parabole da un incontro fortuito, da un amore impossibile, da un errore significativo.
Per alcuni, l’arte è raccontare la vita che gli scorre davanti; per altri, ciò che conta è narrare la vita che gli scorre dentro. Il guaio dell’esprimersi in prima persona è il dover parlare di se stessi; sembra una constatazione banale, ma non lo è affatto.
Un uomo non confessa facilmente la propria vulnerabilità; secondo i canoni del Predatore Alfa, la fragilità in un uomo è sinonimo di poca mascolinità, di debolezza, di insicurezza: perde appeal, si rende ridicolo, piace poco e acchiappa meno. La regola del successo insegna al “maschio” che i veri uomini devono parlare dei loro successi e mai dei loro fallimenti.

Prima del 1964, il linguaggio universale della musica era il rock’n’roll, fresco di una filosofia leggera e disimpegnata: ballare su canzoni che parlavano soltanto d’amore in una forma elementare. “Io amo te”, “tu ami me”, “se non mi ami, lo farai presto” oppure lo struggimento del “peccato sia finita”.
E mentre i Beatles avevano conquistato il mondo parlando di amore, la comparsa della sagoma da menestrello di Bob Dylan aveva introdotto sulla scena la figura del cantastorie che parla di vita vissuta. Secondo la mitologia americana del “girovago e la sua chitarra”, ai cantastorie non ne va bene una: vagano di città in città, da una disavventura all’altra, tra un autostop e una notte sotto il cielo stellato, sempre con l’idea che il peggio debba ancora venire. 
Dylan imparò dalla strada e inventò il folk-rock; Lennon imparò da Dylan e inventò gli anni '60. 
Era il 1965 e John stava vivendo uno dei momenti più difficili. Ricco, famoso e confuso, marito grasso e padre annoiato, l’inquieto anticonformista era intrappolato in un vortice di cliché (dai capelli a caschetto alle odiose cravatte alla canzonetta d’amore) che aveva annullato la sua percezione di se stesso. 
Il Lennon del ‘65 era perso e vulnerabile.

Una delle frasi di Dylan era: “SE NON SEI IMPEGNATO A RISORGERE, SEI IMPEGNATO A MORIRE".
Per rinascere e dar sfogo all’emotività repressa, Lennon doveva sublimare la sua musica, liberarsi dell’imperativo “si parla solo d’amore” e cominciare a parlare di sé. Della sua anima. Coi suoi difetti, le sue imperfezioni. Le paure. E le sconfitte.
La leggenda narra che John era rintanato con Paul McCartney nella soffitta della sua dimora a Kenwood quando compose quella rivoluzionaria richiesta di aiuto (Help!) che non ti aspetti da un vero uomo. Tre ore di lavoro e la canzone era pronta; lenta e straziante ma traboccante di parole chiave:

“Quando ero giovane, non avevo bisogno dell’aiuto di nessuno
Ma ora non sono più così sicuro di me stesso
(..) Aiutami se puoi, mi sento giù
Aiutami a ritornare con i piedi per terra
(..) Mi sento sempre così insicuro
Ho bisogno di te come non ne ho mai avuto prima”.

Nessuna dichiarazione d’amore, nessuna frase sdolcinata, nessuna ostentazione di machismo da star, niente che i più duri tra i duri alla Schwarzenegger, Stallone, Van Damme potrebbero canticchiare. Il brano di Lennon è una confessione aperta, terribilmente sincera e spoglia di artefici, incastonata in una melodia discendente e senza un vero ritornello. È così che il rock’n’roll scoprì che la vita non era solo fiori tra i capelli e mano nella mano, aprendosi a tematiche difficili come il dolore, l’insicurezza, la morte. Ed è così che salutò la sua adolescenza per divenire, semplicemente, “rock”. Crudo. Spigoloso. Adulto.

Se nel 1991 Michael Stipe ha potuto lasciarsi andare ad una confessione poco americana come “Non so se posso farcela” in Losing My Religion, e se Cobain ha potuto inserire un ritornello nei solchi di In Utero che si chiede, anni luce di distanza dal latino da spiaggia abbronzato, “Cosa c’è di sbagliato in me?” è grazie agli antesignani Dylan e Lennon.
Che hanno dimostrato che essere fragili è una virtù. E non nasconderlo è arte.
John dovette poi accettare che la canzone fosse resa più veloce, per rendere l’operazione “commerciabile”. E questo permise al vocalist dei Fab4 di commentare: “È divertente vedere che si balla mentre racconto al mondo di me quando ho toccato il fondo”. 
Un po’ come dire: chiedi aiuto quanto ti pare; tanto la gente ci ballerà su comunque.

- Ci Vediamo al Bivio, Ragazzi.
VVB